Lo statuto dei miserabili

By firenzecittaaperta 4 anni ago
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Prigione

Le rivolte nelle carceri italiane innestano, nella delicata situazione dell’emergenza per il Coronavirus, inedite manifestazioni, ma non nuove esigenze. Da circa quarant’anni, infatti, non accadeva di vedere scoppiare sommosse in decine di istituti penitenziari. In carcere la vita quotidiana è debolmente sospesa a un filo di speranza: un sorriso, una visita, la prospettiva di poter uscire e ricominciare. Quando in carcere scoppia una rivolta, significa che quel debole filo si è rotto trasformando la speranza in disperazione. Il sovraffollamento carcerario ormai registra una media nazionale del 119% (ma in alcuni istituti si arriva al 200%) sulla capienza regolamentare – presumibilmente calcolata tenendo conto degli spazi comuni e di quelli occupati dai letti. Tra i detenuti i suicidi nel 2019 sono stati 53. Sul corpo di polizia penitenziaria, già sottoposto a turni e a condizioni di lavoro duri, si riversano le conseguenze della condizione in cui versano i detenuti. Anche tra le fila degli agenti i casi di suicidio sono alti (un centinaio negli ultimi 10 anni). Il Pianeta Carcere è tutto qua, nei numeri del collasso e nei centimetri a disposizione per compiere il percorso rieducativo. Facendo finta che le leggi adottate dallo Stato per l’organizzazione della vita penitenziaria siano rispettate.

Chiunque conosca il carcere sa perfettamente che chi fomenta rivolte e tiene in ostaggio qualcuno va punito con severità. L’emergenza odierna ha, però, messo a nudo il problema principale: l’umanità assente nelle relazioni tra Stato e istituti. La repressione violenta come unica risposta alle sommosse porterà a interrompere l’escalation, lasciando invariato e urgente il problema principale. Il virus ha cambiato la nostra percezione degli avvenimenti, inibendo le nostre già scarse difese immunitarie dall’irrazionalità. Rinunciare a una stretta di mano per noi comporta un transitorio imbarazzo. In carcere è molto di più. Un’operatrice del carcere di Foggia, ha spiegato che il saluto e la stretta di mano, sempre e comunque, sono tra le regole non scritte del carcere: “Non è stanca abitudine, l’ostentazione di un’educazione in parte ritrovata, a tratti forzata. Non era, non è, ubbidienza alla realtà ristretta”. Stringersi la mano per riconoscersi la dignità di esseri umani pur in quei pochi centimetri di spazio che stanno tra le sbarre e il cesso.

Cosa si potrebbe fare? La popolazione detenuta ha per tradizione scarsa fiducia nelle promesse. Le rivolte sono iniziate per la decisione del Dap di interrompere i colloqui con i familiari. Una misura necessaria a contenere il pericolo contagio. I collegamenti Skype non sono, però, materia di qualche giorno: occorre trovare i computer, avere la connessione di rete, organizzare la turnazione tra i detenuti in maniera da evitare ulteriori problemi. Un progetto che ha bisogno di mesi (e di cui, peraltro, si parla già da qualche anno). S’ipotizzano un’amnistia e soprattutto un indulto, ma anche per avviare il delicato meccanismo istituzionale a ciò necessario occorrono mesi e mesi. E allora? Riccardo De Vito, magistrato di sorveglianza e presidente di Magistratura Democratica, ha spiegato che si potrebbe pensare alla “detenzione domiciliare fino a 2 anni, dopo aver accertato l’idoneità del domicilio“, oppure “al differimento della pena in forma di detenzione domiciliare per il periodo di emergenza per chi ha una pena residua di 2 o 3 anni“, ed eventualmente anche “alla liberazione anticipata speciale“. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone un vasto settore di associazioni ed esponenti politici, tra cui Rita Bernardini del Partito Radicale.

Chi pensa che i detenuti siano solo persone che hanno sbagliato e quindi sia giusto punirle, commette un grave errore. Il calcolo di umanità sociale verso le fragilità non dovrebbe mai venir meno, specialmente nei momenti in cui lo Stato di Diritto è traballante. Sono altre, infatti, le esigenze che confondono la crisi delle rivolte con l’emergenza virus. Michel Focault negli anni Settanta del secolo scorso dette vita ai GIP (i gruppi di informazione sulla prigione); in un’intervista del 1972, durante alcune sommosse negli istituti francesi, rispose che le “rivolte nelle prigioni mettono in questione non solo dei dettagli come avere o no la televisione o il permesso di giocare a calcio, ma, al contrario, pongono il problema dello statuto dei plebei emarginati nella società capitalista. Lo statuto dei miserabili”. Il problema per Focault era offrire una critica al sistema che spiegasse il processo attraverso il quale la società emargina una parte della popolazione. Non mi pare materia di emergenza, ma di struttura. Occorre metterci mano e lavorarci d’impegno subito. Tutti insieme.

Massimo Lensi
Fb: massimo.lensi

Foto di Ichigo121212 da Pixabay

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