Luis Sepúlveda: l’uomo che riuscì a conservare la gioia

By firenzecittaaperta 4 anni ago
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Chi era Luis Sepúlveda? Un uomo da un migliaio di libri e un milione di letture? O forse un poeta che incoraggiava molti con le sue parole in modo che si togliessero le vesti della paura e spiccassero il volo della libertà? Era un grasso gatto nero o una gabbianella agonizzante oppure un guscio di speranza? Dovette fare lo scrittore, giornalista e regista per fare una radiografia affidabile del mondo. Si scoprì marxista e agnostico per essere più credente nelle sue idee e convincersi che dio è inaccessibile, benché sia nella bocca di tutti, alleluia, amen.

Chi lo chiamò Luis? E da dove arriva Sepúlveda? Sembra un cognome legato all’eruzione di un vulcano nella sua giovinezza e alle semplici ma profonde lettere nella sua maturità. Chi gli raccontava storie? Chi gli leggeva libri? Dicono sia stata sua nonna, dicono che gli riempì la testa di parole da fare scoppiare un giorno tra le sue mani. Dicono pure che sognava la rivoluzione, un mondo più giusto per tutti. E che si riempì di idee, teatro, argomenti, el pueblo unido jamás será vencido. Si racconta che perse, ma erano proprio le storie dei perdenti quelle che lui preferiva raccontare, le figure perfette dei vincitori non lo interessarono mai.

Malgrado il suo valore come intellettuale e scrittore rinomato, la gente comune fu il suo punto di partenza per tutte le cose. Perché nacque proletario e capiva meglio di tutti la realtà; perché nonostante sia dura, ha della magia. E Luis Sepúlveda fu lo strillone della strada, la lavandaia di quartiere, il calciatore di riserva, la regina del marciapiede. Tutti gli uomini e tutte le donne che sciolgono il nodo della morte da lunedì a lunedì per respirare la vita, quella poca rimasta.

Cosa sognava Luis? Forse che una volta trasformatosi in polvere sarebbe andato a trovare, finalmente, il vecchio Antonio José Bolívar Proaño per regalargli tutti i romanzi d’amore che la sua curiosità richiedesse. Gli sarebbe piaciuto andare con lui nel profondo della foresta amazzonica dell’Ecuador e condividere con i suoi amici Shuar quella vita di armonia con la natura e sentire che gli alberi, i sassi, i fiumi e gli animali sono uno, sono lui. Oppure tornava una e mille volte a quei ricordi da bambino calciatore del Club Magallanes e al KO propinatogli da Gloria, la ragazza dei suoi sogni che lo abbagliò e gli disse che non le piaceva il calcio ma preferiva la poesia? Fu quello il calcio definitivo per indirizzarlo verso il mondo dei libri, verso l’impegno con la sua gente.

O forse avrebbe preferito tornare in America Latina, a Santiago? Camminare per le sue strade, rimuovere le sue grida, salutare i suoi morti? Sicuramente vorrà bere un bicchiere di vino di fronte alla tomba di Salvador Allende e spaccare la bottiglia vuota in quella di Pinochet e lanciare una bestemmia che colpisca in viso Piñeira, che è quasi come dire Augusto ma senza medagliette sul petto, pezzi di spazzatura che meritano l’oblio. Sicuramente camminerebbe insieme alla gente della strada, quelli che oggi pranzano e domani chissà, accompagnando le rivolte dell’insofferenza in Cile, Ecuador, Colombia…

Sarà che chiacchierò intere notti con la morte? Sarà che insieme fissarono data e ora per ballare una cueca prima di trasformarsi in vento? Luis disse che essere immortali è insopportabile, senza rendersi conto che le sue parole non sarebbero mai morte.

Hugo Palacios García (Quito, Ecuador)
Traduzione Lotar Sanchez

Foto di Albrecht Fietz da Pixabay

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